2. Il fabbricone

a cura del prof. Crivello

Un grande opificio tessile per oltre mezzo secolo di attività

     Il tessile storico poirinese è identificabile in due serie di opifici ed attività: una dozzina circa di ditte artigianali o poco più ormai tutte chiuse ad eccezione di una, ed IL FABBRICONE, un grande opificio attivo negli ultimi decenni dell’Ottocento fino al 1932, poi temporaneamente utilizzato per varie destinazioni, ancora oggi esistente come edificio di archeologia industriale. In questo servizio ci occupiamo del FABBRICONE, ricostruendo le attività tessili che vi si svolsero ad iniziativa delle famiglie Melano prima e Vastapane poi nonché l’evoluzione edilizia dello stesso.

L’EPOCA DEI MELANO

     Dal 1840 operava in Poirino una ditta tessile intestata a GIOVANNI BATTISTA MELANO per la fabbricazione, con telai a mano, di tessuti di cotone grezzo, bianchi e colorati, e di tovagliati in lino. Otto anni dopo la Casa era in grado di produrre su larga scala le tele spigate, le tele russe per usi militari sia a quadri sia a righe, e le tele di lino (da una brochure dell’anno 1900). Nell’anno 1852 Giovanni Battista Melano acquisì il sito con i fabbricati esistenti posto lungo la via Maestra (ora via Indipendenza, già Route de Turin a Parme), sito corrispondente all’attuale Fabbricone ma allora suddiviso in varie proprietà, delimitato dalla via della Rittana (via Arpino) e via del Gallo (via Verdi); il vicolo Martiri della Libertà ancora non esisteva se non per metà in quanto la parte verso via Arpino era occupata da piccoli fabbricati che saranno successivamente acquisiti dai Melano e successori. 

     Dal catasto napoleonico e dai successivi passaggi di proprietà emergono diverse proprietà in quel sito (foto n. 1): Cigna Santi, Capello, Calleri, con ampi spazi inedificati e poche costruzioni tra cui due edifici contigui affacciati sulla via Maestra. I Melano procedettero ad una radicale ristrutturazione sia dei fabbricati esistenti lungo la via Maestra sia degli spazi inedificati per realizzare un grandioso opificio di cui sono testimonianza un atto notarile del 1872 ed una fotografia risalente a fine Ottocento.  L’atto notarile del 1872 riconosce le proprietà dei signori Melano cav. Giovanni fu Gio Battista, Dassano Antonio fu Maurizio, Carasso Luigi e Gennero Sebastiano: in via Maestra 58 una casa civile, otto magazzini, una cantina terrena, tre sottotetti, cortile, fabbrica di telerie con due macchine a vapore della forza di 16 e 20 cavalli, due tettoie, gran saloni, cortile e giardino. La fotografia (n. 2) scattata dall’area dei Cappuccini presumibilmente negli anni Settanta  dell’Ottocento, evidenzia la facciata interna del grande edificio posto sulla via Maestra; su di esso si staglia una alta ciminiera attorniata da bassi fabbricati.

     La famiglia di Giovanni Battista Melano, nonostante fosse costituita da tre figli maschi, non ebbe molta fortuna ai fini della discendenza: il primogenito, Antonio (1821 – 1859), premorì al padre a soli 38 anni ma lasciò eredi due figlie; il secondogenito, Giovanni Battista come il padre (1825 – 1884) visse più a lungo (59 anni) ma con lui si chiuse la partecipazione alla ditta di famiglia; il terzogenito, Camillo (1833 – 1875) morì a soli 42 anni. Le sorti della fabbrica furono proseguite dai signori Giovanni Antonio Dassano (1840 – 1920) e Luigi Carasso che sposarono rispettivamente Marianna e  Margherita Melano, figlie di Antonio. Questi nell’anno 1886 costituirono la Società Dassano e Carasso dopo aver acquisito le quote degli altri eredi Melano.

     Delle vicende delle famiglie Melano ed eredi e delle loro ditte al momento abbiamo informazioni limitate e sparse che riportiamo come elementi per poter poi ricostruire una dinamica più completa se sarà rinvenuta altra documentazione. Di Antonio Melano, lo sfortunato primogenito morto a soli 38 anni, una significativa iscrizione presente nella tomba di famiglia in Poirino celebra le virtù imprenditoriali e commerciali: Nell’arte tessile peritissimo coadiuvò potentemente / a far note in vicine e lontane regioni i prodotti del paese natìo / Fonte di benessere alle classi lavoratrici / cui prestò valido aiuto / di soccorso e di lavoro.  La lapide di famiglia dedicata al secondogenito Giovanni Battista Melano ricorda il suo ruolo di adorato padre ma una corona lapidea posta a fianco a cura della Società Operaia nell’anno 1884 definisce Giovanni Melano insigne benefattore (sappiamo che fu lui ad aiutare il giovane aspirante pittore poirinese Paolo Gaidano a frequentare l’Accademia Albertina di Torino). Anche la famiglia Dassano, che continuò l’attività tessile, ha la tomba di famiglia al cimitero di Poirino ove riposa Giovanni Antonio Dassano (1840 – 1920) insignito del titolo di Cavaliere dei SS. Maurizio e Lazzaro e della seguente epigrafe: Di bontà probità e industre lavoro / esempio adorato in vita rimpianto in morte.

     La già citata brochure dell’anno 1900 ci fornisce altre preziose informazioni sulla evoluzione della ditta Melano. Nell’anno 1865 i telai che lavoravano per conto della ditta avevano raggiunto la notevole cifra di circa 800; dal 1882 furono installati i primi telai meccanici. Numerosi riconoscimenti ottennero i prodotti della ditta durante le grandi Esposizioni Italiane ed Europee (Firenze 1861, Torino 1868 e 1870, Vienna 1873, Chieri 1880, Torino 1884, Palermo 1891, Torino 1898). La nuova gestione Dassano e Carasso, avviata nel 1885, portò ad un aumento considerevole dei telai meccanici, pur conservando un certo numero di telai a mano, e si dedicò con successo alla produzione di tessuti tinti di cotone. Grande attenzione venne posta alla esportazione con recapiti in Berlino, Amburgo ed ovviamente in Parigi ove era depositata la collezione completa della produzione.

     Come si presentava nell’anno 1900 lo stabilimento? (foto n. 3) Un disegno riprodotto nella citata brochure ci rappresenta una panoramica dello stabilimento, visto probabilmente dal campanile. In primo piano un inconfondibile tramway che trainava una carrozza per passeggeri ma anche due carri carichi di merci. Sulla via Maestra prospetta il grandioso edificio a due piani con tre ingressi, un seminterrato ed un solaio; ad ovest sulla attuale via Martiri era già delineata una manica del futuro fabbricone, poi vari fabbricati all’interno del sito ma fondamentale era l’opificio con le coperture a sheed presente nella zona sudest, accompagnato da una alta ciminiera fumante.

     Negli anni successivi (1901-1908) attraverso diversi atti notarili Dassano e Carasso acquisirono altre piccole proprietà (casette e cortili) nell’area ovest (via Arpino) onde completare il quadrilatero che risulta meglio delineato in un disegno risalente agli anni Dieci riprodotto sul certificato azionario della MANIFATTURA DI POIRINO. In effetti la ditta Dassano & Carasso, Successori di Melano Giovanni Battista e figli, denominata Fabbrica Telerie Mantilerie in Poirino, con un deposito in Torino in via Carlo Alberto, nell’anno 1906 con un atto notarile diventò MANIFATTURA DI POIRINO, società anonima per azioni, con un capitale di un milione di lire interamente versato, costituito da 4.000 azioni di 250 lire ciascuna; ne era amministratore delegato Luigi Carasso, presidente Giulio B… (non leggibile)

     Certamente furono avviati nuovi lavori di sistemazione dello stabilimento che nel succitato disegno (foto n. 4) risulta ormai un quadrilatero delimitato da tre maniche di edifici contigui; rimangono gli sheed, la ciminiera ed alcuni fabbricati in centro. Sappiamo però che la Manifattura di Poirino entrò però rapidamente in crisi, interruppe la produzione intorno al 1914 e venne progressivamente liquidata negli anni successivi. Le cause precise di questa dinamica al momento non ci sono note; sappiamo dalla Relazione di chiusura dei liquidatori che l’ultima Assemblea degli azionisti, tenutasi il 24 novembre 1919, aveva prescritto di distribuire solo l’8% del valore nominale delle azioni (lire 80.000 su un milione); che essi avevano cessato l’esercizio del deposito di Torino liquidando la merce, provvedendo alla liberazione del locale ed al licenziamento del personale e che avevano riscontrato notevoli difficoltà nel chiudere la Ditta.

     Dalla Manifattura la proprietà del Fabbricone nel corso dell’anno 1918 passò ai signori Fabaro Tommaso, Scaglia Antonio e Minelli Matteo acquisitori in comunione. Poco dopo con rogito del 14 agosto 1918 la proprietà passò al cav. Giacomo Vastapane.

Lavoro, proteste e scioperi

     Non sappiamo di preciso quanti fossero gli addetti della Tessitura Melano: sulla base di indizi possiamo ipotizzare alcune centinaia, prevalentemente donne. Abbiamo però informazioni certe di una serie di proteste e scioperi verificatisi negli anni Settanta, Ottanta e Novanta dell’Ottocento; dai documenti, in particolare atti comunali, emergono la preoccupazione primaria di mantenere l’ordine pubblico anche con il ricorso alla forza, un sostanziale allineamento dell’Autorità pubblica con gli interessi della proprietà, una limitata attenzione per le questioni sollevate dai lavoratori. 

     In una delibera di Giunta del 7 aprile 1874 “Espone il sig. Sindaco che gli operai tessitori di questo Comune essendosi associati per fare sciopero nel giorno trenta p.p. marzo ad oggetto di farsi aumentare la paga dal loro principale Melano Giov.i  Batt.a e Figli, se ne temevano serie conseguenze pell’ordine pubblico, per cui si credette bene di chiedere alla Questura di Torino un rinforzo alla Stazione di questi R.li Carabinieri ed un drappello di Guardie di Pubblica Sicurezza… per cui il Comune deve farsi carico delle spese di vitto di detto rinforzo salvo a chiederne il rimborso in tutto od in parte dalla predetta Ditta Melano, attesochè le medesime furono causate sia per tutelare l’ordine pubblico che gli interessi della Ditta stessa.

     Il 31 gennaio 1880 presso la Giunta “Circa 30 operai in mantileria lamentansi che i loro principali, Ditte Melano Giò Batt.a e Figli e Maina fratelli hanno diminuito il prezzo della loro opera e vorrebbero ridurlo nuovamente; chiedono quindi che il Comune s’interessi perché ciò non avvenga, altrimenti essi non potranno più ricavare di che vivere, e specialmente in quest’anno che ogni derrata aumentò di prezzo” Il Comune ascolta le ragioni degli imprenditori “il sig. Gennero, uno dei soci della Ditta Melano e uno dei fratelli Maina … hanno risposto che sono costretti a ridurre la fattura perché i fabbricanti degli altri Comuni danno la merce a minor prezzo, e che malgrado abbiano ridotto il loro beneficio ai minimi termini, pur tuttavia dichiarano di essere stati costretti a ribassare le fatture, e che perciò non avrebbero via di mezzo se non quella di rinunziare alla fabbricazione della mantileria, tanto più che hanno pieni i magazzini. Dichiarano che ove a taluno operaio non convenga lavorare in mantili, loro darebbero a lavorare in tela”. Per cui, richiamati “li Vacca Domenico e Delbosco Battista (che furono quelli che presentarono il memoriale) loro si fece conoscere le ragioni addotte dai loro principali e dopo varie osservazioni e spiegazioni promisero di portarsi al lavoro unitamente ai loro compagni persuasi di avere fra non molti giorni una risposta definitiva”

     Negli anni Novanta le tensioni sociali e politiche in Italia crebbero con la formazione del Partito Socialista e dei primi sindacati da un lato, di governi autoritari (Crispi, Di Rudinì, Pelloux) dall’altro. Riflessi di queste tensioni si ebbero anche nella nostra tranquilla Poirino: una lettera urgente riservatissima della Prefettura di Torino inviata al Comune in data 24 aprile 1890 sulla imminente ricorrenza del Primo Maggio, invitava ad indagare e a riferire se gli operai di codesto Comune intendano prendere parte a simile affermazione ed in quale forma. Si raccomandi ai capi di stabilimenti industriali di tenere aperti gli opifici quel giorno e si prendano gli opportuni accordi con l’Arma dei RR.i Carabinieri per la tutela dell’ordine pubblico, tenendo per norma che non devono assolutamente permettersi in quel giorno processioni e passeggiate collettive sulle vie e piazze pubbliche, o assembramenti o riunioni in luoghi pubblici che avvenissero allo scopo di concorrere alla manifestazione indetta per quel giorno. Gradirò una sua relazione in proposito colla massima sollecitudine.

Qualche tempo dopo, il 5 settembre 1894, il Questore scriveva  una lettera riservata al Sindaco avente ad oggetto Contro i partiti sovversivi: “Taluni individui nell’intento di sovvertire le masse operaie ed insinuare massime contrarie alle vigenti istituzioni, anche nelle tranquille popolazioni delle campagne, si recano nei Comuni di questo Circondario e sorprendendo talune volte la buona fede dei Presidenti delle Società Operaie ottengono i locali occorrenti per tenervi conferenze insidiose al rispetto delle Leggi. Debbo prevenire che codeste riunioni e conferenze cadono sotto le sanzioni dell’art…..  Ove la S.V. avesse preventiva notizia dell’arrivo dei ridetti conferenzieri, che talune volte si spargono per le campagne in isquadre, si compiacerà avvisare subito l’Arma dei Reali Carabinieri per la tutela dell’ordine, e l’esecuzione delle richieste che la S.V. reputasse di fare onde impedire ai sovvertitori di esplicare la loro azione a dispetto delle Leggi. Gradirò dalla S.V. un cenno di ricevuta della presente.”

     Ma dalla comunità di Poirino emergevano anche voci responsabili e solidali con le pesanti condizioni di lavoro degli operai, in particolare delle tessitrici. Il giovane avvocato Ernesto Barberis (Sindaco di Poirino nel secondo dopoguerra) scriveva una bella lettera al quotidiano La Gazzetta del Popolo il 30 marzo 1895, lettera in cui da un lato riconosceva il positivo apporto delle fabbriche di telerie al paese “offrendo un sicuro assegnamento a tante famiglie che dall’industria della tela traggono di che vivere” ma dall’altro denunciava anche le pesanti condizioni di lavoro che ponevano a rischio la salute delle giovani tessitrici: “da un po’ di tempo in qua in quest’opificio industriale l’orario di lavoro quotidiano fu allungato per modo (e va crescendo ogni giorno), che già più di una volta si ebbe qualche rimostranza da parte degli operai e specie delle ragazze, che ne costituiscono il maggior numero. Una giornata di lavoro effettivo, che dura dalle ore 6 e mezzo del mattino (che fra giorni diverranno le 6) fino alle 8 di sera, con un’ora solo di riposo per il pasto meridiano, è eccessiva per qualsiasi operaio, ma è davvero enorme per delle ragazze, la cui età varia dai 12 ai 20 anni al più: dodici ore e mezzo di lavoro il giorno (che fra poco saranno tredici), di cui sette consecutive, dall’una alle otto pomeridiane, in un luogo chiuso e in mezzo ad un rumore assordante di macchine e di telai, non devono favorire troppo lo sviluppo organico di queste fanciulle, che si preparano appunto a diventare donne. Né mi si dica che il lavoro delle fanciulle non è così gravoso materialmente, essendo esse per la massima parte addette ai telai meccanici: è cosa ammessa da tutti i fisiologi che non soltanto il soverchio lavoro non solare stanca e logora l’operaio, ma anzi quel consumo di energia nervea, che nel nostro caso sarebbe prodotto da un lavoro di attenzione intensa e continua  per accudire al buon andamento del telaio meccanico, riesce, se eccessivo, molto più dannoso per i teneri organismi giovanili. Aggiungete di più la mancanza di aria libera e viva, le esalazioni più o meno gradite, una disciplina abbastanza ferrea che non permette alle ragazze di appoggiarsi un sol momento o di scambiare una parola colle vicine, pensate alla naturale delicatezza del sesso femminile e non vi meraviglierete più, se la sera, specie nel cuor della state, voi vedrete quelle ragazze uscire dall’opificio, dopo una giornata di tredici ore di lavoro, coll’aspetto stanco, col corpo striminzito e senza quella naturale pompa e freschezza che tanto conferisce alla beltà giovanile.

E, come è naturale, da questo pregiudizio di salute deriva un danno economico, che ci dimostra ancor esso come un tale orario di lavoro sia un grave errore; tanto più trattandosi di ragazze che costituiscono una parte così importante e così delicata della popolazione, si dovrebbe guardare anche un pochino al di poi e pensare che da queste donne, che logorano i loro più begli anni in un lavoro così improbo, non potranno nascere che dei figli malati e degli operai imbelli. Oltre al danno presente avremo così pel futuro una generazione meno resistente alla fatica, e col diminuire della forza di lavoro, unica ricchezza della povera gente, si farà sentire più dolorosa la stretta della miseria, perché mancherà loro ad un tempo la salute e il pane. ….. E’ triste a dirsi, ma è vero: là dove grida la voce della miseria, tace soffocata quella del cuore e della ragione, e la libertà dei genitori, come quella dell’operaio, sono affidate unicamente all’umanità e alla discrezione dell’industriale. Pertanto voglio sperare che i signori industriali, padroni di questo opificio, da gente per bene come essi sono, ridurranno la giornata di lavoro a queste povere ragazze: avranno così degli operai più diligenti e più volenterosi, e si acquisteranno un nuovo e vero titolo di benemerenza presso i Poirinesi

     Nell’aprile dell’anno 1897 si verificò una nuova tensione tra le operaie e la ditta Dassano e Carasso: le operaie inviarono una petizione al Sindaco pregandolo caldamente a volersi interporre “per addivenire ad un riavvicinamento colli suddetti loro principali, per la divergenza che fra loro esiste, dando, con loro sommo dispiacere, effetto, la cessazione al lavoro, ora necessario, poiché sommo è in loro il rispetto alle leggi e alle Autorità” Quali erano le loro richieste?

1° Esatta tassazione metrica nella lunghezza delle pezze

2° Orario estivo: dalle 6,30 alle 12; ripiglio del lavoro alle 13,30 per cessare alle 19

3° Aumento di due cent. per metro di qualsiasi tessuto, tanto per quelli fabbricati su telai meccanici come a mano

4° Trattamento più giusto verso alle operaie; vale a dire che i tessuti i quali si possono fabbricare qui in Poirino, darne a loro la preferenza;

5° Licenziare, quando fosse esuberante il numero delle operaie, prima, quelle che si conoscono più floride il loro stato finanziario; poscia le più giovani di fabbrica;

Non sappiamo in quali termini intervenne il Sindaco: sappiamo però che il Prefetto si felicitò con lui con una lettera del 1° maggio 1897 “lieto della cessazione dello sciopero da parte degli operai dello stabilimento Dassano e Carasso, rinnovo alla S.V. i miei ringraziamenti per la sollecitudine con cui si adoperò per ottenere così pronto e felice risultato”

     Intorno al 1914, come già detto, la Manifattura Tessile entrò in crisi e provocò disoccupazione. Una petizione firmata da 200 persone chiese al Comune di impiegare gli operai disoccupati (si noti: gli operai uomini) con l’esecuzione di opere pubbliche. Il Consiglio comunale esaminò tale petizione in data 29 agosto e provvide con lavori straordinari al letto del torrente Banna.

Immagine che contiene schizzo, disegno, edificio, bianco e nero

Descrizione generata automaticamente

L’EPOCA DEI VASTAPANE

     I Vastapane approdarono a Poirino nell’anno 1918 acquistando il sito già dei Melano e procedendo quindi al completamento del quadrilatero nelle forme in cui si presenta ancora oggi. Ma chi erano i Vastapane?

La famiglia Vastapane

     Giacomo Vastapane nacque in Riva di Chieri l’11 ottobre 1872, quartogenito di Giuseppe e Margherita Maina che generarono sei figli. Nell’anno 1896, aveva 24 anni, era entrato nella fabbrica chierese di tessuti e coperte Gerbino e figlio, una ditta che aveva una lunga storia dal 1795; insieme ad altri soci (Vergnano, Fonio)  acquisì progressivamente tale ditta denominata quindi Successori G. Gerbino e figlio e ne divenne successivamente unico proprietario e responsabile. Il matrimonio di Giacomo con donna Maria Panieri consolidò gli interessi per il tessile: la signora Maria Panieri era infatti originaria del Canavese dove Giacomo si recava per ampliare le proprie conoscenze ed esperienze nel campo della tessitura visitando la Manifattura di Pont in cui operava la famiglia della futura moglie. Dal matrimonio nacquero cinque figli: Giuseppe (1901-1985), Marco (1904-1989), Margherita (?-1985, Riccardo (1911-1984), Bianca (1916-2004). Solo i primo due, Giuseppe e Marco, seguirono le orme del padre preparandosi all’inserimento nell’azienda, il primo con studi da ragioniere, il secondo da perito tessile. Giacomo dedicò tutte le sue energie ai due stabilimenti tessili di Chieri (sito in viale Diaz angolo viale val Cismon) e di Poirino (via Indipendenza, via Vastapane). I pochi documenti conservati (un registro della corrispondenza: Copialettere) riferiti agli anni 1913-1922 attestano una frenetica attività volta alla commercializzazione dei prodotti onde evitare eccessive giacenze di magazzino che avrebbero comportato licenziamenti di personale, e all’approvvigionamento di risorse finanziarie ricorrendo prevalentemente a prestiti da parte di parenti, amici e conoscenti. Alcune testimonianze tratte dal citato Copialettere: ad un signore di Roma che gli aveva prestato 7.000 lire l’1 maggio 1914 rimettendo gli interessi scrive: L’informo che il punto massimo della crisi è passato…. Ora cominciano gli incassi e fra breve spero di poter tornare creditore verso le predette banche”. Ma pochi mesi dopo scrivendo al cognato il 13 agosto 1914, espone una situazione opposta: “da parecchio tempo sono preoccupato per la critica situazione finanziaria che forse mi obbliga a chiudere lo stabilimento per la mancanza di denaro circolante specialmente per le paghe operaie. Speriamo che il Governo esorterà le banche a voler mettere a disposizione degli industriali i denari sufficienti pel regolare andamento di tutte le aziende. Un incendio di merci depositate presso la dogana di Buenos Aires e la rottura con il socio Fonio con conseguenti strascichi giudiziari turbarono ulteriormente l’andamento contraddittorio della ditta. Gli anni di guerra aggiunsero altre difficoltà: arruolamento di impiegati e tecnici indispensabili per la conduzione dell’azienda; rincari del cotone e delle tinte, mancanza di trasporti via mare per esportare in America. In una lettera del 17 febbraio 1916 denuncia l’avidità di certi industriali che hanno reso diffidente il Governo: “La febbre degli affari avvenuta sette otto mesi addietro colpì parte degli industriali: per noi chieresi fu un disastro e specialmente per me poiché il Governo, essendo stato imbrogliato da fornitori disonesti, ne fa subire le conseguenze a tutti, rifiutando qualsiasi tipo similare che in precedenza comperava ed io ebbi il piacere di fornire senza la minima osservazione. Tra tessuto grisette, tela tasche, coperte da letto per ospedali, catalogne ecc. il mio capitale venne completamente assorbito ed oltre al non fruttare, non so quando potrò esitare tale merce e con quale perdita….. Quel po’ di lavoro che si potrebbe fare per l’esportazione, non si può produrre per la mancanza di quasi tutte le tinte principali; quella parte che si arriva a fabbricare con tutti gli sforzi, quando è pronta, non si può spedire per mancanza di vapori; insomma per noi chieresi e specie per me non potrebbe andare peggio….  Oltre tutto quanto esposto, mi trovo quanto prima senza personale e per forza sarò costretto a chiudere lo stabilimento. Di dodici impiegati che avevo, otto furono richiamati tra i quali il Tecnico che non potrò certamente rimpiazzare, e gli altri lo saranno quanto prima. Io resterò quindi con del personale provvisorio e non pratico, perciò sarà molto meglio decidere la chiusura.”

In questi anni si registrano alcuni licenziamenti di personale tecnico legati a temporanee cadute della produzione, ma anche numerosi prestiti da privati tra cui emergono diversi poirinesi. Gli affari comunque non andavano così male visto che nell’ottobre del 1917 acquistò la Villa Cappuccini di Chieri e nel marzo del 1919 una automobile Fiat tipo 2 Landaulet limousine. Si aggiungano inoltre frequenti donazioni di coperte e di tessuti ad orfanatrofi (30 dicembre 1912, 40 coperte all’Orfanatrofio femminile, Mi raccomando massima segretezza essendo mio sistema fare quel po’ di bene che le mie deboli forze permettono senza far pubblicità), al Cottolengo di Vinovo (20 giugno 1917, 130 catalogne in segno di riconoscenza per aver ritirato suo fratello Bartolomeo).

     Il 27 dicembre scrive all’amico Chionio: “Voglia il buon Dio fare in modo che questa disgraziata  guerra (la rovina mondiale) finisca presto, altrimenti non si sa come e dove andremo a finire! La villa acquistata è appunto quella della famiglia Colomiatti, peccato che per loro disgrazia gli affari le andarono male e la villa andò in deperimento. Se Dio vorrà la rinfrescheremo.  L’anno 1918 fu più  generoso: oltre a portare la fine della guerra, consentì ingenti investimenti al cav Giacomo Vastapane che confidava sempre più nell’inserimento dei due figli maggiori nella conduzione della ditta. In altra lettera all’amico Chionio (16 marzo 1919) così si confida: “Mi fa piacere dirti che Giuseppe mette alquanto giudizio e già mi serve a dividere un po’ i dispiaceri che giornalmente si passano in questo misero mondo. Spero che se non a giugno almeno entro ottobre riuscirà ad ottenere il diploma da Ragioniere. Marco, benché sia il secondo della classe ed il suo nome sia nel quadro d’onore, è spiacente di non poter essere il primo, dovendo lottare con un collega di rarissimo ingegno. Degli altri tre bambini per quanto molto vispi non posso lagnarmene. La salute nostra è ottima, non avendoci finora colpito i papatacci e…

     Anche gli affari vanno bene: lo dichiara espressamente all’amico Chionio in una lettera del 9 settembre 1919: “I miei affari vanno sempre bene e l’auguro altrettanto per i tuoi.”; lo si evince dalla Dichiarazione alla Agenzia delle Entrate sui sopraprofitti di guerra presentata nel marzo del 1920: emerge una cifra d’affari per l’anno 1918 di lire 1.500.000 con un utile dichiarato dell’8% pari a 120.000 lire; per l’anno 1919 il volume d’affari dichiarato scende a 850.000 con un utile di lire 25.500 pari al 3% e la seguente spiegazione: “diminuzione di valore delle nostre merci causata dall’improvviso armistizio” Dal 1918 gli impegni del cav. Vastapane raddoppiano perché si aggiunge lo stabilimento di Poirino 

     Riprende l’andamento oscillante delle vendite con momenti di euforia commerciale e altri di crisi: “Affari: potrebbero andare molto meglio, nessuno si aspettava una crisi di questo genere, ma come ne passammo altre si sorpasserà anche questa”  scrive il 16 luglio 1921 al sig. Alessandro Caro di Roma. Ma sulla famiglia Vastapane incombono nuove disgrazie: la consorte donna Panieri a fine 1921 si ammala e trascinerà la sua malattia per due anni venendo a mancare il 14 febbraio 1923. Ma già un anno prima era venuto a mancare improvvisamente il marito Giacomo Vastapane: in famiglia si tramanda (Sergio Vastapane, nipote vivente) che nel febbraio del 1922 Giacomo tornasse a casa da Poirino a Chieri su un autocarro scoperto con alcuni operai; furono colpiti da un furioso acquazzone che provocò in Giacomo una polmonite fulminante che lo portò alla morte nell’arco di pochi giorni. Non aveva ancora compiuto i cinquant’anni. Solo il figlio maggiore, Giuseppe, aveva raggiunto la maggiore età: dovette farsi carico, nonostante la limitata esperienza, sia della gestione della ditta sia della educazione dei fratelli e delle sorelle, insieme alla madre che sarebbe mancata l’anno successivo. Presto gli si affiancherà il secondogenito, il fratello Marco.

Il Fabbricone

     “Non ho parole di ringraziarli della loro cortesissima accoglienza e sono lietissimo di aver fatto la loro personale e preziosa conoscenza e mi sento altamente onorato delle prove di stima e di amicizia dimostratemi, specialmente in occasione dell’affaretto concluso senza interesse da parte loro. Approfitterò della loro bontà e cortesia per certi schiarimenti ed informazioni circa il modo di comportarmi di fronte al paese allorquando avrò la fortuna di far rinascere in Poirino un modesto Stabilimento che, spero, potrà dare lavoro almeno a 500 operai…”  così Giacomo Vastapane scrive l’1 agosto 1918 al cav. Menso e gentile signora di Poirino. Con espressioni tendenti al ribasso manifesta i suoi grandiosi propositi di trasformare il sito del Fabbricone in uno stabilimento in cui occupare almeno 500 operai. L’entusiasmo iniziale viene presto smorzato dalla requisizione di gran parte dello stabilimento da parte dell’Esercito, come lamenta in una lettera al Sindaco di Poirino del 28 agosto per cui “non potrò perciò tanto presto iniziare i lavori di riattamento del locale, come era mia intenzione. Facendo voti per la fortuna delle nostre armi e per un pronto ritorno a tempi migliori mi auguro di essere presto in condizioni di iniziare i lavori per detto stabilimento …”

     Il Comune vide certamente in Giacomo Vastapane una grande opportunità per il paese e cercò di coinvolgerlo nell’Amministrazione ma l’imprenditore declinò l’offerta con cortesìa e fermezza; in una lettera del 24 ottobre 1918 così rispondeva: “Ringrazio sentitamente cotesto Consiglio Comunale per l’attenzione a mio riguardo ma con mio sommo rincrescimento non posso rispondere favorevolmente, poiché per principio non accetto cariche amministrative, prima perché mi manca il tempo ed in secondo luogo perché ci tengo conservarmi l’amicizia di tutti, poveri e ricchi e di qualsiasi partito” L’alloggiamento della truppa provocò nuovi dispiaceri al Vastapane che in una lunga lettera del 28 gennaio 1919 al Comando Divisione Militare di Torino riferiva di devastazioni dei locali e del mobilio, di gravi danni agli infissi ed agli oggetti; rinunciava al risarcimento ma chiedeva lo sgombero di detti locali “detto fabbricato lo debbo adibire ad uso industriale” 

     Purtroppo non disponiamo di documenti puntuali sulla ristrutturazione del fabbricone e sull’avvio dell’attività tessile; ci dobbiamo basare su alcune immagini, su informazioni sparse, su testimonianze del sig. Sergio Vastapane. Una bella immagine risalente agli anni Venti rappresenta lo status dell’impresa (foto n. 5): nella parte superiore sono rappresentati i due stabilimenti, quello principale di Chieri sito in viale Diaz angolo viale val Cismon ed il Fabbricone di Poirino in via Vastapane; in basso la ragione sociale: Manifattura tessuti e coperte G. VASTAPANE Succ. G. GERBINO  e Figlio, sede amministrativa in Chieri, iscrizione alla Camera di Commercio n. 22258, logo della Confindustria, Ufficio vendite in Torino, via della Rocca 24, telefono 49080, una marchio grafico costituito da una ragnatela sorretta da un ramo sormontato dalla scritta Casa fondata nel 1795. Il Fabbricone di Poirino è ormai completamente delineato (foto n. 6): un quadrilatero che su tre lati è costituito da robusti edifici su tre piani con ampi finestroni verso l’esterno ed il cortile interno; due rampe di scale sugli angoli interni verso via Arpino collegano i tre piani; su via Indipendenza si affaccia una lunga costruzione su due piani principali, un seminterrato ed un ampio sottotetto: in questa parte si trovano gli uffici amministrativi, la banca privata, le sale per lavorazioni manuali (ricamo, cucito …). All’interno un ampio cortile con siepi, vialetti ed una colonna che sorregge una Madonna con Bambino; sono spariti tutti i fabbricati precedenti, vi si accede da via Arpino tramite un passaggio carraio ricavato all’interno dell’edificio, chiuso da un cancello in metallo su cui sono sovrapposte le lettere GV (Giacomo Vastapane, ancora oggi visibili). 

     Sulla Rivista mensile municipale di Torino dell’ottobre 1929 compare un servizio dedicato all’industria Vastapane. Tra l’altro viene riportato che “Nell’anno 1918 sulle rovine dell’abbattuta Manifattura di Poirino, veniva, per volontà di Giacomo Vastapane, costruito un grandioso stabilimento nel quale furono installati 200 telai meccanici per la fabbricazione di tessuti di vario genere e copriletti dagli ampi disegni alla Jacquard. E’ da notare che, data la capacità notevole dello stabilimento in parola, potranno essere ancora collocati altri telai, il cui impianto è attualmente allo studio. Dai due stabilimenti perfettamente attrezzati vengono prodotti articoli vari: la maggior parte è costituita da tessuti di cotone adatti a vestiti da uomo e ragazzo e specialmente di tessuti per paesi caldi. Vengono pure fabbricati ingenti quantità di copriletti di tutti i tipi, sia di cotone che di seta artificiale o misti cotone e seta artificiale, lino, canapa e ramié.” Si dà conto inoltre del ruolo importante dell’esportazione, in particolare nel Centro e Sud America ove opera la ditta Vastapane Hermanos diretta dal cav. Marco Vastapane (il secondogenito di Giacomo) con sede a Barranquilla nella Colombia; la vendita all’interno è seguita dal procuratore Angelo Asti con sede in Torino, via della Rocca 24. Ben 355 sono gli operai complessivamente occupati nei due stabilimenti di Chieri e Poirino. Il servizio celebra poi le opere assistenziali a favore delle maestranze poste in atto ancor prima che l’avvento del Fascismo le rendesse obbligatorie, cosicché anche in questo ramo di delicata assistenza la Ditta fu una vera precorritrice ed augura quindi ai gerenti attuali Sigg. rag. comm. Giuseppe Vastapane e cav. Marco Vastapane il conseguimento delle giuste aspirazioni che sono la naturale conseguenza di un sì luminoso operato.

     L’Annuario dell’Industria Cotoniera Italiana del 1930 riportava schematicamente dati analoghi con qualche informazione aggiuntiva: come direttore generale viene indicato Angelo Asti, lo stabilimento di Chieri viene datato al 1907, quello di Poirino al 1918; l’attività viene definita tessitura meccanica con una lunga serie di prodotti: cannetés, coperte, copriletti, damaschi, drills, gabardine, grisettes, olone, stoffe per vestiti da uomo, stoffette, tele blen per marinare, tele medioevali, tessuti operati di cotone con effetti di seta artificiale, tussores. Lungo altresì l’elenco dei paesi stranieri meta di esportazioni: Malta, Romania, Turchia, Africa del Sud, Colonie italiane, Congo belga, Egitto, America del Nord e del Sud, Cuba, Guatemala, India inglese, Indie olandesi, Iraq, Filippine, Palestina, Persia, Siria, Australia; agenti permanenti all’Estero in Buenos Aires, Montevideo, Rio de Janeiro, Barranquilla, Amburgo.

     Quando e perché la Ditta Vastapane chiuse? Riporto le informazioni ufficiali contenute in un atto notarile del 5 agosto 1931: “… da qualche anno la sopravvenuta crisi commerciale ha pure fatto sentire i suoi effetti sulla azienda propria di essi Vastapane; è diminuita se ben quasi cessata la produzione dei tessuti, i macchinari inoperosi sono svalutati, e così la molta merce in magazzino, difficilissimo il recupero dei crediti e per contro lo stesso onere di imposte e di personale e onere maggiore di interessi passivi. Esso tutore, i fratelli e sorella comproprietari hanno deciso di porre l’azienda in liquidazione a senso dell’art. ….” Siamo a ridosso della grave crisi economica e commerciale dell’anno 1929 che travolse numerose aziende; Marco Vastapane nella già citata testimonianza del 1978, così ricorda: “quando mio padre è mancato siamo entrati noi figli, poi nel periodo della ecatombe del 1931-1932 quando c’è stata una crisi enorme, la ditta è cessata…”. Dunque: tracollo del mercato, giacenze di magazzino, crediti inesigibili, quindi fallimento. Ma ci furono anche errori di gestione o dispersione di risorse? I Vastapane allora erano ancora giovani; Marco per vari anni era stato impegnato in America Latina per la commercializzazione; il primogenito Giuseppe, responsabile dell’azienda, coltivava anche altri interessi: era appassionato di vetture sportive, si recava spesso a Monza per seguire gare automobilistiche, frequentava gli eventi mondani di Casa Savoia, addirittura nel corso del campionato 1930-31 fu il presidente del Torino Calcio. Il fallimento della Vastapane lasciò strascichi amari: non solo centinaia di disoccupati ma anche debiti insoluti nei confronti di chi aveva prestato denari alla banca privata di famiglia. Questo evento determinò in Poirino una cattiva fama dell’impresa Vastapane che finì con l’offuscare i grandi meriti storici di Giacomo Vastapane. Con atto notarile del 31 agosto 1931 il consiglio di famiglia Vastapane (i cinque: tre fratelli e due sorelle) decidevano la messa in liquidazione della Successori G. Gerbino e figlio (la denominazione ufficiale della Ditta era rimasta invariata) e nominavano come liquidatori i due fratelli Giuseppe e Marco nonché il rag. Vittorio Grosso.

     Dopo il fallimento dell’azienda i Vastapane seguirono percorsi diversi: Giuseppe si trasferì a Torino per dirigere la smalteria Casella; Marco tornò al tessile con altri soci nella Ditta Gilli e C.; il fratello minore rag. Riccardo praticò con successo il tennis nel Lawn Tennis Club Stadium di Torino e divenne un funzionario della Martini e Rossi; la sorella Margherita, poliglotta, si dedicò ad opere pie tra cui il Movimento Apostolico Ciechi; la sorella minore Bianca divenne farmacista.   

IL FABBRICONE DOPO LA TESSITURA

     A chi è appartenuto il fabbricone dopo il fallimento della Tessitura Vastapane ed a quali usi è stato destinato? Vicende complesse da seguire perché fu suddiviso in diverse proprietà e quindi alcune sue parti sono state adibite ad usi diversi. Di fatto cessò la sua struttura unitaria e rimase prevalentemente inutilizzato, fatta eccezione per la manica prospettante su via Indipendenza adibita a residenze e servizi

     Seguiamo alcuni passaggi. Con atto notarile del 13 aprile 1939 la proprietà passò dalla Banca di Risparmio (in cui presumibilmente erano confluiti i beni della tessitura fallita e che doveva far fronte agli ingenti prestiti da restituire) ad una nuova comproprietà indivisa costituita dai signori Minelli Antonio, Musso Domenico e Minelli Maria coniugi, e cav. Giovanni Brossa: terreno della superficie di mq 5.712 con entrostanti costruzioni ad uso industriale, uffici, depositi ed abitazione, accatastati nel foglio 40. Con successivo atto del dicembre 1950 i proprietari procedettero alla suddivisione dell’intero immobile frazionando in tre parti sia l’edificio residenziale su via Indipendenza sia i locali produttivi sia il cortile interno, riconfermando il comune accesso da via Arpino. Nei decenni successivi i proprietari e gli eredi procedettero ad alcuni interventi di recupero edilizio residenziale ed a nuove alienazioni. Tutta la manica su via Indipendenza fu trasformata in abitazioni ed uffici; seguirono tre interventi per il recupero di alloggi nelle due maniche del Fabbricone affacciate su via Martiri della Libertà (già via Vastapane) e via Verdi sia pur limitatamente a porzioni contigue con l’edificio di via Indipendenza: negli anni Cinquanta un primo intervento su via Verdi (alcune unità abitative); negli anni Sessanta una decina di alloggi su via Martiri ai numeri civici 3 e 5; negli anni Ottanta altri alloggi e negozi al piano terreno furono ricavati su via Verdi in prosecuzione del precedente intervento. Tali interventi, pur compromettendo l’unità architettonica del fabbricone, all’esterno ne hanno mantenuto sostanzialmente il prospetto rispettando i piani e le aperture.

     Nel 1979 la restante parte del Fabbricone, che costituiva ancora la parte preponderante, fu ceduta al sig. Giovanni Delbosco, noto antiquario poirinese, che utilizzò tali locali come magazzino degli oggetti di antiquariato. Quando tale magazzino fu svuotato ed i locali rimasero vuoti e soggetti a degrado, in particolare le coperture ed i finestroni, ci si pose anche a livello pubblico il quesito della destinazione. Un primo tentativo di recupero di tali locali ai fini di edilizia residenziale pubblica fu compiuto dal Comune negli anni 1993-94 ma successivamente abbandonato; un secondo tentativo di iniziativa privata fu compiuto intorno al 2008-2010 ma l’incombere della crisi economica ed edilizia scoraggiò gli imprenditori interessati. Si sarebbero potuti ricavare decine di alloggi nei due piani superiori e locali per attività artigianali, commerciali e di servizio al piano terreno, ma soprattutto si sarebbe recuperato un importante edificio storico, salvandolo dal degrado e mantenendo per quanto possibile la struttura architettonica, almeno all’esterno

     Oltre ai già segnalati usi residenziali e commerciali, occorre ricordare che nel corso dei decenni diverse altre attività hanno trovato ospitalità nei locali del Fabbricone, sia pur per periodi abbastanza limitati. Intanto negli anni della seconda guerra mondiale il Fabbricone tornò ad essere utilizzato come caserma e magazzino militare; cessata la guerra l’esercito americano si insediò temporaneamente per ricostruire il ponte sul Banna. Nel dopoguerra al piano terreno lungo via Arpino si insediò la tipografia degli Aggero cui subentrarono nel 1979 i Manfieri che di lì si trasferirono nel 1988. Dal 1947 al 1961 al n. 5 di via Vastapane si insediò la Unione Sportiva Poirinese, mitico luogo di incontri per intrattenimenti e per l’organizzazione di eventi sportivi. I Poirinesi più attempati ricordano diverse altre presenze in quei locali: una stamperia di tessuti; una lavorazione di freni per biciclette, il pastificio Tosa, lo studio fotografico di Romolo Nazzaro, un laboratorio di Radio Elettra, una torneria meccanica di Altina, e altri ancora.

     Rimangono da ricordare i cambi di denominazione del vicolo posto a ponente del Fabbricone (ora via Martiri della Libertà). Già vicolo dei Boglioni, fu aperto dai Vastapane su suolo privato per collegare via Indipendenza con via Arpino e quindi ceduto al Comune nel 1923 a condizione che la via sia ricordata al defunto loro padre cav. Giacomo Vastapane che era mancato l’anno prima. La richiesta fu accolta dal Comune per cui tale vicolo mantenne la denominazione Giacomo Vastapane fino al 1971 allorché il Consiglio comunale ne cambiò la denominazione in via Martiri della Libertà. Ottima denominazione, a parere dello scrivente, ma un po’ generica se finalizzata a ricordare i Martiri della Resistenza. Ma il cambio fu storicamente inopportuno perché cancellava la memoria di un protagonista della vita economica poirinese: forse sarebbe opportuno ripristinare la denominazione di via Giacomo Vastapane.

Foto

  1. Dal Catasto francese 1810: il sito del fabbricone è ancora in gran parte inedificato
  2. Veduta dai Cappuccini: anni Settanta Ottanta (sec. XIX)
  3. Lo stabilimento Dassano e Carasso nell’anno 1900
  4. Lo stabilimento intorno al 1914
  5. Stabilimenti Vastapane di Chieri e Poirino intorno al 1930
  6. Il Fabbricone di Poirino intorno al 1930

Testimonianze

MARCO VASTAPANE         (1/2/1904  —   13/5/1989)

Intervista raccolta da Cesare Matta nell’anno 1978

     La ditta iniziale era ditta GERBINO la quale è stata fondata nel 1797; un secolo dopo è stata ceduta dai Sigg. Gerbino ai dipendenti, agli impiegati che avevano, tra i quali c’erano mio padre, un Signor Vergnano e un signor Fonio che hanno fatto una ditta: Successori Giuseppe Gerbino.  Questa ditta per un po’ di anni è rimasta nella vecchia sede che aveva prima con i vecchi titolari, poi hanno costruito in viale Fasano angolo viale Diaz una fabbrica che adesso non è più fabbrica, ad ogni modo  è stata per tanti anni con mio padre, poi quando mio padre è mancato siamo entrati noi figli, poi nel periodo della ecatombe del 1931-1932 quando c’è stata una crisi enorme, la ditta è cessata        poi dopo ho ripreso io e altri due o tre impiegati della ditta e abbiamo fatto la Ditta GILLI & C     che era la prosecuzione della ditta GERBINO – VASTAPANE ma non aveva niente a che fare, era una cosa nuova. Io ho prestato il mio servizio di tecnico tessile con gli altri due soci che attualmente sono mancati tutti e due.  Io sono un po’ sordo come  conseguenze di una malattia professionale perché sono stato molto sovente e per lungo tempo in mezzo ai telai; i telai meccanici sono molto rumorosi e dannosi all’orecchio, tutti gli anni venivano da Torino, dall’Ufficio competente per la  verifica delle condizioni di udito dei dipendenti che lavoravano nei reparti rumorosi, c’ero sempre anch’io il primo a farmi prendere i dati, risultavo il più malandato.   

 La legge sull’assicurazione previdenziale obbligatoria.

     Io mi ricordo, allora ero ancora studente, è venuta quella legge della assicurazione obbligatoria, so che mio padre ha dovuto imporsi proprio con la forza perché gli operai non volevano quella piccola trattenuta per l’assicurazione; so che lui aveva detto a questi bravi uomini: Sentite, io lo faccio,  non me li metto io in tasca quei soldi, sono per voi, per la vostra vecchiaia, io  non posso tenervi se non facendovi l’assicurazione; ha insistito, era riuscito e aveva fatto l’assicurazione; si trattava poi di due lire la settimana anche meno, era già qualcosa ma non che potesse mandare in rovina una famiglia. E mi ricordo poi, passati anni e anni, ho ritrovato qualcuno di quei vecchi dipendenti iquali erano al Regio Ospizio di Carità qui di Chieri, ho chiesto come stavano, mi hanno fatto un mucchio di feste, mi conoscevano da quando ero piccolino, e gli ho detto: Vi ricordate quando mio padre buonanima ha dovuto insistere e battere i pugni sul tavolo perché voi accettaste di farvi fare  la trattenuta obbligatoria: Ah sì sì, ancora pro ca ra fait lulì perché se aveisu nen l’assicuraziun, adess gnanca a l’ospizi an piiriu nen. I contributi venivano versati ad un ente pubblico, non ricordo il nome, non era ancora l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, era un altro istituto, ha avuto vari nomi e modifiche. Per quanto riguarda la ditta mia, è stata messa subito in atto la disposizione malgrado le resistenze che venivano dalla parte degli operai, è stata messa a posto ed è andata avanti, sempre aumentando l’importo dei contributi man mano che crescevano, fino a due assicurazioni, l’assicurazione per malattia e l’assicurazione per invalidità e vecchiaia. Non mi risulta che ci fossero state polemiche tra gli imprenditori in quanto che si trattava di una quota così piccola che non poteva incidere sul costo del lavoro, usando un termine moderno. 

Insomma, io so che tutte le disposizioni sono sempre venute,  magari qualche volta un po’si brontolava, perchè c’era un mucchio di scartoffie da preparare e le denunce mensili e quindi quello creava un disturbo nel lavoro, vero, era una seccatura ma non che fosse un onere troppo forte, sono sempre state applicate, e difatti io vedo che tante vecchie operaie, tanti operai sono tutti con la pensione, sono contenti, mi trattano ancora, diremo, con affetto,   non mi considero uno sporco sfruttatore del popolo. Se non è stato immediatamente, nel giro di pochi mesi l’avranno applicata tutti, finito il primo senso di sgomento da parte dei dipendenti per quella piccola trattenuta che gravava sulla loro paga, dopo le cose si sono appianate e sono andate avanti bene.  

In precedenza non c’era nè casse mutue, niente; l’operaio, se veniva ammalato, stava a casa e non aveva nessun rimborso spese;  era grave la situazione quando un padre di famiglia si ammalava, però  non c’erano leggi, non c’erano disposizioni per quello. C’era a Chieri una Società di Mutuo Soccorso, di Previdenza ed Istruzione del Cav. Francone, con sede nel Municipio, ma non so come funzionasse, forse funzionava prima che io fossi entrato a lavorare, nel secolo scorso forse funzionava. 

Dopo la Prima Guerra una ripresa, poi un’ecatombe

     Negli anni Venti, subito dopo la fine della guerra, a Chieri c’era una ripresa, se non erro, in quanto che gli operai che erano sotto le armi e rientravano dalla guerra, erano rientrati da poco e cercavano di introdursi, di ottenere il posto di lavoro: gli operai maschi avevano il lavoro sui telai da coperte, un lavoro pesante, gli operai femmine lavoravano su telai piccoli, bassi e nella preparazione, orditura, dipanatura eccetera;  ci fu in quell’allora un rifiorire di piccole aziende, piccoli artigiani che si mettevano assieme, tre o quattro e facevano un’azienda e lavoravano; poi viceversa è  venuta la crisi nel ’29, ’30, ’31, tutte le aziende che non si erano ingrandite, che erano rimaste nel piccolo, hanno potuto superare la crisi in quanto avevano disponibilità; le ditte invece che avevano fatto stabilimenti, impianti nuovi, si sono ritrovate con bei stabilimenti, bel macchinario ma con scarsità di fondi, c’è stata una ecatombe, possiamo chiamarla. Molte ditte  hanno dovuto chiudere i battenti, lasciar liberi gli operai, è stato un periodo molto brutto per Chieri. Gli operai maschi cercarono di sistemarsi a Torino, alla Fiat o imprese simili come pendolari, le donne non potevano fare altro lavoro che quello, si sposavano, aspettavano, si sistemarono poi poco a poco; quando una ditta era in fallimento non c’era nessuno che si azzardasse a proporre che continuasse con l’amministrazione controllata che continuasse a lavorare; se andava male, chi era fallito, era finito e gli operai si spandevano un po’ di qua un po’ di là. Certe ditte che hanno resistito hanno potuto assorbire gli operai migliori e lasciar liberi quelli meno in gamba, c’è stata una selezione.

 Quale era la gerarchia delle mansioni all’interno di un’azienda?

Il primo gradino: le ragazze venivano a fare le bobinatrici e le spolatrici, prendevano il filato dalle matasse, lo  mettevano sulla macchina  e  su dei rocchetti, questi rocchetti passavano al reparto orditura, di lì venivano trasformati in subbi; questo subbio andava sul telaio; al telaio c’era la tessitrice a lavorare mentre al primo lavoro c’era la bobinatrice. Poi dopo c’era un’altra gradazione molto importante benché poco numerosa: il filato da quando era messo sul subbio bisognava che  fosse indirizzato nei licci e nel telaio; per fare questo c’era una categoria molto buona che chiamavano passatrici o annodatrici; la differenza consisteva in questo: la passatrice prendeva dal cavalletto i fili che venivano dal subbio con un gancetto, una specie di crochet, infilava uno per uno secondo i licci, secondo come era segnato sulla carta. Poi quando invece c’era da ripetere il subbio che era andato alla fine, con lo stesso articolo, allora non si faceva più il passamento filo per filo ma si annodava un filo con l’altro, un filo per volta, con un po’ di cenere e di colofonia, pece greca e cenere, i fili così torti venivano passati attraverso le maglie e portati oltre il pettine; in quel modo si avvantaggiava tempo e spesa. Poi dopo andava sul telaio dove c’era la tessitrice la quale doveva tessere ma per tessere c’era bisogno delle spole, e le spole le faceva una macchina, la macchina per spole.

E quindi le stesse operaie che facevano le bobine per fare l’ordito, erano anche capaci di fare quelle spolette, anzi nelle ditte che avevano un certo numero di telai, c’era una ragazza sola che provvedeva a tutte le spole, lei prendeva i rocchetti oppure le matasse e faceva le spolette, tante di un colore per un telaio, tante per l’altro ; dava, diremmo, da mangiare,  ai telai secondo i filati che aveva bisogno per tessere;  quindi le categorie erano spolatrici, bobinatrici, orditrici, annodatrici, passatrici, tessitrici.  Finita la tessitrice le pezze andavano in magazzino poi venivano mandate al finissaggio per dare l’appretto. 

Dai telai a mano ai telai meccanici

Lo Jacquard, quei grossi telai a mano eran di legno. Quelli meccanici, elettrici, metallici, sono venuti a Chieri verso il 28-30, non prima, prima eran tutti di legno.

E le ditte che facevano il cambio del macchinario, in genere davano il telaio vecchio di legno all’operaio che aveva sempre lavorato o lo affittavano o lo regalavano, secondo come si mettevano d’accordo; per prendere i nuovi telai che occupavano spazio, tenere il telaio e mantenerlo inutilizzato, non conveniva invece lo davano in affitto o anche lo regalavano ai vecchi operai che lo portavano a casa, si mettevano assieme tre o quattro e lavoravano per le ditte.

Questi operai venivano a prendere il lavoro e se lo facevano a casa propria o in un posto adatto dove sistemavano il telaio , lavoravano a fasòn, come si dice, tanto al metro, ci sono stati degli alti e dei bassi a seconda della concorrenza, a seconda della qualità dei filati

Credo che attualmente di telai a mano a Chieri ce ne sarà ancora uno o due, qualcuno che l’ha tenuto per ricordo, sono antieconomici, facevano trenta battute al minuto, forse anche meno, rispetto a quelli che ne fanno cento, non c’è neanche la quarta parte della produzione  poi nei telai meccanici ne possono guardare due, invece nei telai a mano più di uno non si può seguire.

Se l’introduzione dei telai meccanici comportò una diminuzione degli occupati? Non direi proprio, produsse una disponibilità di personale maschile perché i telai meccanici e per coperte erano lavorati da uomini, diventando meccanici anche la donna poteva dare il movimento senza fare grandi fatiche, allora ci fu una disponibilità di uomini i quali se ne andarono la maggior parte alla Fiat o ditte del genere, diventarono meccanici, l’occupazione femminile sostituì la maschile e gli uomini si sistemarono nelle aziende di Torino; qualcuno c’era ancora perché i lavori di fatica non potevano farli le donne gli uomini erano diventati personale ausiliario; dal 1925-26 cominciarono i telai meccanici, poi dopo quando si erano ormai sistemati, anche chi non voleva il telaio meccanico dovette per forza comprare e adattarsi ad usarlo perché aveva un costo di lavoro molto inferiore rispetto a quello a mano

Retribuzioni e contratti 

Le retribuzione erano stabilite in base a delle tariffe concordate tra l’unione industriali, la LIT, Lega Industriali Tessili con i primi sindacalisti che c’erano allora, e avevano stabilito per la tessitura  una data quota in base alle battute, le battute sono le volte che la trama passa in un centimetro, più sono le trame meno il telaio produce, se per fare un metro ci vogliono diecimila battute per dire, più battute ci sono e meno il telaio produce perché il telaio va sempre alla stessa velocità quindi avevano stabilito una quota tanto per velocità a prescindere dal metraggio per dare il lavoro a cottimo alle tessitrici; però ho notato che malgrado tutto i datori di lavoro che avevano degli operai delle operaie in gamba han sempre dato di più della tariffa pagavano di più della tariffa concordata con i sindacati perché per evitare che gli portassero via una buona operaia, perché il telaio è meccanico e va avanti ma se l’operaia che c’è sopra non è in gamba, rovina tanta roba, invece con l’operaia che sa il suo mestiere il telaio produce e non fa dei guasti non fa delle pezze difettose, allora le brave operaie avevano un soprassoldo un premio, per dire invece di trentacinque centesimi ne avevano quaranta.

Questo tipo di contratto era valido per tutti sia per le coperte sia per i tessuti, avevano fatto un accordo. Gli appartenenti alla Lega ricevevano un elenco che diceva che l’articolo tale va pagato tanto a battuta ma tutti davano di più alle operaie buone. 

Di lavoro ad orario non ce n’era, nelle aziende il lavoro era pagato tutto a cottimo, almeno nel mio caso, un tanto al metro, facevano la pezza poi la misuravano, tanti metri faceva tanto, ogni operaia aveva un libretto su cui segnava le pezze rese, l’articolo, i chili eccetera la lunghezza in metri dava la paga effettiva. Erano abbastanza differenti le lavorazioni delle coperte e delle pezze; quella delle coperte era un lavoro più difficile, più complicato mentre quello delle pezze era un lavoro più facile più semplice più rapido da fare; bisogna tener presente quello, nelle pezze in base ai telai c’erano da dodici a venti battute c’era la tariffa normale e si dava un tanto per battuta, se c’era poi un articolo specialissimo che avesse un numero di battute molto più forte, allora aveva un premio e se c’era un articolo che aveva solo cinque o sei battute veniva aumentato perché altrimenti non poteva guadagnare l’operaia, se le battute erano dieci dodici al centimetro, bene, ma se erano solo sei, il filato era molto grosso e allora col filato grosso la spola durava poco, tutti i momenti bisognava cambiarla non c’era come adesso il cambio delle navette o delle spole e il telaio continua sempre, allora bisognava fermare cercare una inserzione, quindi era un lavoro molto più lungo quello non automatico 

Gli operai iniziavano a lavorare a tredici quattordici anni, andavano in Municipio, si facevano dare il libretto di lavoro, portavano la prova di aver fatto la terza elementare, con il libretto di lavoro con quello potevano impiegarsi se trovavano, non c’era Ufficio di Collocamento.

     Nelle fabbriche non c’erano operai senza libretto di lavoro perché era pericoloso, c’era pericolo che si facessero male; invece lavoravano quelli che avevano il papà, parliamo sempre prima del 1925, quando c’erano ancora tanti telai a mano degli uomini,questi ragazzi portavano in fabbrica le spole fatte in casa e portavano indietro quelle vuote, questi ragazzi non erano lavoratori, portavano solo il cestino, ce n’erano di tutte le età ma non erano lavoratori, venivano a portare il cavagnin con le spole . Gli Uffici di Collocamento sono venuti dopo la Prima Guerra, prima si assumeva così, andavano dal padrone la mamma o la sorella maggiore, avrei questo ragazzo, questa ragazza da mettere a posto e allora se ne avevano bisogno lo prendevano oppure prendevano nota, se ne avremo bisogno lo chiameremo ma non c’era l’Ufficio Collocamento allora, che mi ricordi io di prima della Guerra, è venuto poi in seguito dopo la fine della Prima Guerra, che poi non funzionava neanche tanto bene, non era necessario il bollo loro per assumere, loro ti dicevano Vai a vedere là in quella fabbrica, vai a vedere in quell’altra,  ma non era come adesso che se non c’è il talloncino rossa, o non so bene che colore sia, anche se ne avevi bisogno, non si poteva assumere. C’era il libretto di lavoro, parliamo sempre dei tempi addietro, ma non il libretto delle marchette che veniva poi richiesto, si applicavano le due lire, uno e cinquanta a seconda della paga settimanale e dell’età del ragazzo o della ragazza.

Differenze di retribuzione tra copertieri e tessitori

     I tessitori a mano che facevano le coperte a mano avevano una buona paga in quanto che erano dei tecnici, avevano il loro telaio, lo conoscevano, i piccoli guasti se li aggiustavano da loro e poi era un lavoro abbastanza faticoso, stavan bene, prendevano delle belle paghe, sempre comparate al costo della vita di allora. Poi c’era una grana, in caso di crisi, in caso di mancanza di lavoro in quanto che  il lavoro era più che altro stagionale, verso la primavera c’era molta richiesta verso l’estate meno, allora nei periodi di calma o di stasi, c’era una cosa che chiamavano la faita, sarebbe lo short time  in inglese, ma dato che era un lavoro a cottimo e non a ore, non si poteva dire ti do un lavoro a ore; si diceva all’operaio: lavora per tante lire alla settimana, quando hai raggiunto quei metri, lo rendi ed io ti pago ma non farne di più perché dovrei riempire il magazzino e non saprò quando farò poi fuori le coperte. Con lo stesso telaio si facevano diverse misure delle coperte, quelle più piccole e quelle più grandi; una volta fatte, sono fatte, non è che si potevan aggiungere o cucire una con l’atra, allora bisognava avere sempre l’assortimento e allora c’era la faita, così per questa settimana o per due settimane tu devi solo fabbricare e rendere quanto necessario per raggiungere la tal cifra, quando hai fatto quello, vai a spasso e aspetti la settimana dopo, puoi anche farne di più, lo renderai la settimana dopo; così avevano stabilito per evitare il sovraffollarsi delle rimanenze in magazzino. I copertieri che avevano il telaio in casa, lavoravano in casa, ma gli altri lavoravano in ditta dove ogni operaio aveva il suo telaio. Gli operai che lavoravano a casa erano quelli che avevano magari avuto il telaio in regalo o a buone condizioni di acquisto dal proprio datore di lavoro che li aveva rimpiazzati con il telaio meccanico 

La festa del lunedì dei copertai

     Quasi tutti i copertai, anche i più morigerati, il lunedì era una coda della domenica; al sabato venivano a rendere, a prendere i soldi, la domenica andavano a giocare alle bocce in campagna e il lunedì ancora, lavoravano in fabbrica ma eran liberi, nel senso che, dato che eran pagati al metro, se facevano meno metri, meno soldi prendevano. Se mi ricordo qualche episodio? Mi diceva una volta mio padre che era andato un martedì a vedere dove c’erano i telai degli uomini ed eran là seduti che facevano la frittata con le uova, ed era martedì già, gli dissero na veul, na veul?a veul favorì? Ah no no, ma ricordatevi che dovete anche lavorare. I copertieri lavoravano dal lunedì al sabato, però lavoravano quando volevano, quando ne avevan voglia; in una giornata lavoravano dalle otto alle dodici e dalle due alle sette, nove ore, quattro al mattino e cinque al pomeriggio. L’orario era stabilito ma loro, dato che erano a cottimo, andavano, venivano, piantavano lì, son rimasto senza spole, devo aspettare che me le portino, andavo a casa. C’erano due lavori: i telai delle coperte erano a cottimo, i telai meccanici delle ragazze erano anche loro a cottimo ma non potevano andare via quando volevano perché quando c’era il motore attaccato che faceva funzionare tutti i telai, loro dovevano essere lì, non potevano andarsene; i copertai lavoravano sui telai a mano, quei telai di legno, grossi, enormi alti quattro metri e larghi quattro, la navetta scorreva con le rotelle sotto, andava a finire di là, poi tornava, le navette erano due, si alternavano, c’era una trama grossa e una fina, quella grossa riempiva, quella piccola teneva unito tutto insieme, era un lavoro che bisognava fare attenzione a non sbagliare, lavorare in piedi con i pedali; un pedale era il telaio più semplice, gli altri telai un po’ più complicati, avevano due pedali, era tutto combinato piedi braccia e testa, era un lavoro interessante. 

Tra padroni e operai

     Tra datori di lavoro e operai c’erano rapporti molto cordiali, c’era paternalismo, non che il padrone trattasse male, no no, il padrone era un padre per gli operai, si interessava per i figli, anche solo a parole,  e bèn, come sta tuo figlio, è stato promosso?, quell’interessamento che creava affiatamento tra datore di lavoro e prestatore d’opera, poi dopo quando si sposava si faceva il regalo, quando comperava un bambino si faceva un piccolo regalino per il bambino, cosette che non son niente ma contano nell’affiatamento nella vita, eh sì! Episodi di contrasto? Quando c’era qualcosa da dire, e bèn, me ne vado, non c’era bisogno ….

     Della mia fabbrica non ho più niente, nessuna fotografia, la ditta si è chiusa, poi si è chiusa anche l’altra, avrei avuto del materiale molto interessante per la mostra che tentiamo di fare.

Gli operai che avevano il telaio in casa: ci lavorava il capofamiglia, la moglie faceva le spole, non avevan da perdere il tempo a mandare il ragazzo a portare le spole al padre ma lavoravano forse meno a casa, sa, in fabbrica insieme agli altri forse non osavano farsi vedere pigri, a casa invece, io sono stanco; non ho mai visto nessuno che dicesse a casa mia lavoro più che in fabbrica, ma io non so niente di preciso.

Note per la trascrizione: Intervista raccolta da Cesare Matta al sig. Marco Vastapane nell’anno 1978, audioregistrata su nastro, in preparazione di una mostra sul tessile a Chieri. Avendo recuperato il nastro, ho cercato di trascrivere il testo il più fedelmente possibile, mantenendo il tono colloquiale della narrazione, con alcuni arrangiamenti sintattici e lessicali; non ho riportato le domande, ho talvolta adattato la risposta alla domanda posta in modo che risulti chiaro l’argomento trattato. I sottotitoli in corsivo sono miei. Durata dell’intervista: un’ora circa. Non emergono né la data precisa né il luogo dell’intervista, a parte un 19 luglio all’inizio non meglio precisato.

                                                                A cura di Alessandro Crivello – Poirino aprile 2013.

MARIANNA GAMBINO MUSSO (1916-20.?)

Quand r’aso a brajava, surtìo tui ansèma 

     Quand r’aso a brajava, surtìo tui ansèma (quando la sirena suonava, uscivamo tutti insieme). Questo sembra essere uno dei ricordi più nitidi di Marianna Gambino in Musso, una teen ager prossima ai novant’anni (classe 1916), della propria esperienza di operaia durata circa due anni presso la fabbrica tessile Vastapane di Poirino, meglio conosciuta come il Fabbricone. 

     Ho iniziato a lavorare nella primavera del 1928, non avevo ancora compiuto i 12 anni, fui addetta alla predisposizione delle spole per le ricamatrici. Nel Fabbricone c’era un reparto riservato al ricamo: si entrava attraverso la scala maggiore che dà su via Indipendenza (allora si chiamava via Vittorio Emanuele); al piano superiore vi erano dei macchinari per il ricamo ed una sezione per la rifinitura a mano: si facevano centrini, si ricamavano tendaggi. Nell’ala del Fabbricone antistante via Vittorio c’erano gli uffici della Ditta e la Banca Privata dei Vastapane, all’angolo con via Verdi. 

     Ero stata avviata a quel lavoro dal sig. Ramella, il direttore della Sezione Ricami, che abitava in una villa ai Cappuccini; quando lui era fuori per lavoro, tenevo compagnia alla moglie, mi consideravano la loro “cita”. In fabbrica facevo anche delle commissioni per conto del sig. Ramella.

     Della fabbrica conservo pochi ricordi, ero troppo piccola. Veramente ero già stata nel cortile del Fabbricone prima ancora di andarci a lavorare: nel giorno in cui ricevetti la Cresima fu collocata la statua della Madonna Immacolata, statua che ora si trova all’Istituto Geriatrico. Ricordo che al piano terra vi erano i grandi telai per la tessitura delle lenzuola di cotone; si lavorava sei giorni la settimana, il mattino dalle otto a mezzogiorno, il pomeriggio dalle due alle sei; facevamo però il “sabato inglese”, cioè il sabato lavoravamo solo di mattina. Il lavoro era scandito dal suono della sirena che noi scherzosamente chiamavamo “r’aso”: si trovava sull’abbaino dell’edificio antistante via Vittorio Emanuele, forse l’impianto c’è ancora adesso.

     Nel febbraio del 1930 (se mi ricordo bene), il Fabbricone chiuse improvvisamente, vi lavoravamo circa in 150 in quel momento, fummo tutti lasciati a casa, compresi i capi. Fu allora che ancora una volta la mia capa Michin-a mi aiutò, mi indirizzò alla famiglia Maina in corso Fiume a fare la donna di casa, ma questa è una storia che ho già raccontato .

     Voglio ancora aggiungere un ricordo: in quegli anni tutte le famiglie poirinesi avevano dei telai a mano in casa; li tenevano nella cantina o nello storm (il ripostiglio), in genere avevano un telaio grande per le lenzuola ed uno più piccolo per gli asciugamani. Le famiglie lavoravano per conto delle ditte che fornivano il subbio con il filato; consegnavano quindi le pezze di tela che venivano pagate a misura.

Testimonianza raccolta il 29 luglio 2005 nell’abitazione in via Tavolazzo.

A cura di Alessandro Crivello